Nel 2002, il centro storico della capitale del Suriname, Paramaribo, fu dichiarato Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco, principalmente in ragione della fusione tra l’architettura olandese e le tecniche e l’uso dei materiali locali. Un sincretismo architettonico, che risponde alla variegata e in larga parte ancora non pacificata presenza dei vari gruppi etnici che abitano il più piccolo Paese dell’America del Sud. Una molteplicità etnica, che segue il filo della tormentata storia del Suriname, fatta di un lungo periodo di schiavitù, di un colpo di Stato militare e di una guerra civile, che hanno lasciato pesanti conseguenze nella coscienza sociale del Paese e sotto il profilo economico. Le elezioni, svoltesi nel 2020, in una situazione di grave crisi economica, hanno visto la vittoria dell’ex-capo della polizia di Paramaribo, Chan Santokhi, a conferma della ancora significativa presenza delle forze di pubblica sicurezza all’interno della vita politica del Paese.
Più del 40% della popolazione surinamese è formata da hindustani, discendenti di popolazioni originarie dell’India e del Pakistan, che cominciarono ad arrivare nel Paese sostanzialmente a partire dal 1863, anno in cui l’Olanda abolì la schiavitù per sostituire la manodopera schiava afrodiscendente. Questa, i cosiddetti maroons, rappresenta la porzione quilombola (per usare un termine proprio della storia coloniale brasiliana) all’interno del Suriname, essendo discendenti di schiavi africani deportati in Sudamerica, che riuscirono a scappare nelle ampie foreste dell’interno e di là a formare sei gruppi tribali caratteristici: i boni, i kwinti, i matawai, i ndjuka, i paramaka e i saramaka.
Stretto tra le due Guyana e confinante a sud con lo Stato brasiliano del Pará, i principali centri del Suriname si concentrano sulle rive dell’Oceano Atlantico – la più sviluppata dal punto di vista economico e dove la maggioranza della popolazione vive, compresa la capitale dal nome di origine tupi, Paramaribo – e scendendo più a sud, nell’interno del Paese, su quelle del fiume Suriname, quale è il caso del distretto di Brokopondo, che sorge sull’omonimo lago artificiale e che è già stato luogo di estrazione dell’oro su larga scala.
La concentrazione di porti atlantici, associata alle grandi vie fluviali disponibili verso le zone più interne del Paese e ai suoi confini estremamente porosi, fanno del Suriname uno dei luoghi di transito ideali per ogni traffico illecito che possa interessare il subcontinente latinoamericano. Una parte consistente di questi traffici, che non solo passano, ma che vedono il Suriname come uno dei centri propulsivi, riguarda il commercio illegale e l’uso di mercurio utilizzato in vaste aree del piccolo Paese sudamericano al fine di trovare l’oro nascosto nelle buche di circa due metri volta a volta scavate.
Il 10 settembre del 2021, il canale YouTube del portale informativo internazionale Vice pubblicò un reportage dal titolo, invero un poco altisonante, The Most Dangerous Black Market You’ve Never Heard Of, in cui si metteva in luce l’impressionante rete di interessi economici e di complicità alla base del redditizio business dell’estrazione dell’oro su piccola scala nel Suriname (ASGM – Artisanal and small Scale Gold Mining) mediante l’utilizzazione di mercurio. Una situazione, come minimo, spinosa, che investe non solo il Suriname, ma anche le due Guyana, parte del Brasile, parte del Venezuela e altri Paesi del Cono Sur, in particolare il Messico e la Colombia.
In questa articolata rete di approvvigionamento e uso di mercurio, il Messico svolge una funzione fondamentale, rifornendo Paesi come Colombia, Bolivia e Ecuador, dove si registra la presenza di miniere di oro su piccola scala illegali (Colombia) e un intenso traffico di mercurio verso i Paesi confinanti, tanto di forma legale che illegale (Ecuador e Bolivia). L’Ecuador registra anche la presenza di miniere di oro su piccola scala (ASGM), mentre la Bolivia sembra fungere tanto da luogo di transito come pure di successiva riesportazione, tramite canali illegali, del mercurio verso i Paesi confinanti, in particolare il Brasile.
Con riferimento a questa precipua proiezione verso l’America del Sud, Panama rappresenta un importantissimo centro di stoccaggio e transito del mercurio, al pari del territorio messicano di El Jocote, località al confine col Guatemala, dove, stando ai dati dello UNEP 2017 (UN Environment Programme), nel solo 2017 furono sequestrati 4980 kg di mercurio illegale. Il mercurio illegale, proveniente dal Messico, entra in Colombia da vari punti, ma principalmente dal porto di Buenaventura, situato sul lato del Pacifico nel dipartimento della Valle del Cauca. Mentre, sul confine col Venezuela, il mercurio entra in Colombia dai valichi di frontiera posti in prossimità della città di Cúcuta per poi essere raccolto e smistato in due fasi, che avvengono rispettivamente a Bucaramanga e a Medellín.
Una gestione del traffico di mercurio illegale, che, come menzionato nel già citato UNEP del 2017, potrebbe avere subito alcune modifiche a seguito dell’entrata in vigore, il 16 luglio 2018, del divieto all’uso del mercurio per l’estrazione dell’oro sul suolo colombiano. Parimenti, dai dati e dalle mappe rese disponibili dalle Nazioni Unite, si può concludere che il corridoio caraibico alimenta principalmente la Colombia, la quale rappresenta la destinazione principale dei carichi di mercurio in partenza dal Messico. Elemento, questo, che rafforza la tesi di un circuito interno alla Guyana, al Suriname e alla Guyana Francese (con un parziale coinvolgimento di Venezuela e Brasile), cui vanno aggiunte le connessioni sviluppantesi via Atlantico, per ciò che concerne l’approvvigionamento di mercurio con riferimento in maniera precipua al Suriname.
Uno degli aspetti forse più singolari, legati a questa tortuosa vicenda del mercurio e dell’oro riguardante il Suriname, è nell’ordine di grandezza dei soggetti coinvolti. Contrariamente a quello che siamo abituati a vedere in Sudamerica con riferimento alle multinazionali, le quali frequentemente si abbattono come piranha su comunità locali pressoché indifese, il maggior aspetto problematico nella relazione mercurio/oro è rappresentato dai lavoratori delle cosiddette ASGM (Artisanal and small Scale Gold Mining), un microuniverso formato da braccianti, piccoli produttori, garimpeiros brasiliani e altre vite di contrabbando legate al settore aurifero surinamese, che, come nel caso della cocaina in Paraguay, hanno creato un microcosmo economico, all’interno del quale l’illecito e tutto il fiorente indotto ad esso collegato, trasformatosi in quotidiano gesto necessario, finiscono per essere tollerati dalle autorità, nonostante gli alti costi in termini di sostenibilità ambientale e dal punto di vista umano.
La Convenzione di Minamata, che il Suriname ha ratificato nel 2018, fu pensata, ricordando la città giapponese in cui alla metà del secolo XX si registrò il maggiore disastro legato all’inquinamento da mercurio, proprio con l’obiettivo di controllare e ridurre il più possibile la presenza di mercurio nell’ambiente. Il testo finale venne approvato a Ginevra il 13 gennaio del 2013 e vide l’impegno di centoquaranta Paesi. Tra gli obiettivi espressi dalla Convenzione vi era proprio quello di applicare restrizioni all’estrazione mineraria primaria – ciò che abbiamo visto essere una delle grandi fonti di approvvigionamento da mercurio, dal Messico in direzione della Colombia – e controllare i processi, in cui si impiega mercurio o composti di mercurio, come nel caso dell’estrazione di oro artigianale e su piccola scala, ciò che costituisce, per l’appunto, la ragione alla base dei traffici tra le due Guyana e il Suriname.
Malgrado l’accuratezza con la quale la Convenzione è stata scritta, tali disposizioni hanno dovuto spesso fare i conti con le resistenze e un certo disinteresse dei singoli governi, con la corruzione dilagante all’interno dei locali corpi di polizia e ultimo, ma non ultimo, la decisiva assenza di fonti di sostentamento alternative per la gran parte degli attori sociali coinvolti nel traffico di mercurio e nella ricerca dell’oro in Suriname. Sebbene la ratifica della Convenzione di Minamata sia avvenuta soltanto nel 2018, ciononostante, è dal 2006 che il piccolo Paese sudamericano ha vietato l’importazione di mercurio, che è continuata in maniera illegale, appoggiandosi su controlli alla frontiera facilmente aggirabili. Nel 2016, in una delle poche operazioni proficue condotte dalla polizia di Paramaribo, furono sequestrati 128 kg di mercurio importato illegalmente dalla Guyana. Una quantità tutto sommato modesta, se comparata ai 4980 kg sequestrati nel 2017 alla frontiera tra Messico e Guatemala o, rispettivamente, ai 430 kg e ai 1700 kg bloccati nello stesso 2017 dallo IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) brasiliano a Joinville e a Itajaí (Stato di Santa Catarina), provenienti da due navi cargo dalla Turchia.
Da ultimo, volendo per un momento astrarre dai dati e guardando in maniera più generale alla complessiva storia del subcontinente americano, ritroviamo la stessa corsa all’oro di sempre, grondante violenza e sangue delle popolazioni native, ogni volta sottomesse dal conquistatore di turno, che, per trovare il proprio El Dorado, è disposto a trasformare ogni luogo in un inferno in terra. Una corsa verso il precipizio non solo per il piccolo Suriname, il cui vento e le cui acque da tempo sono diventati tossici a causa del mercurio, ma per l’intero bioma amazzonico assediato e sfigurato ogni giorno di più.
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