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L’omicidio di Fernando Báez Sosa conferma che l’Argentina ha un problema con il rugby

by | Feb 26, 2023 | Argentina | 0 comments

Sabato 18 gennaio 2020, Villa Gesell, località balneare in provincia di Buenos Aires. Sono le ore 04:42 e il diciottenne Fernando Báez Sosa sta mangiando, assieme a una dozzina di amici, un gelato davanti alla discoteca Le Brique. Studente di giurisprudenza con ottimo rendimento e figlio di Silvino Báez (portiere) e Graziela Sosa (badante), una coppia paraguayana trasferitasi nel quartiere porteño Recoleta alla ricerca di una migliore qualità di vita, Fernando è in vacanza assieme alla fidanzata, Julieta Rossi, e ad alcuni amici. Il gruppo del diciottenne alle 01:30 entra nel locale che nelle ore successive si stipa all’inverosimile: gli avventori sono gomito a gomito. Un conoscente di Báez Sosa, a causa della calca creatasi, inavvertitamente urta e macchia con il cocktail che sta consumando la camicia di un altro cliente. Questi non accetta le scuse e inizia una discussione fra la sua compagnia e quella di Fernando. La sicurezza interviene, Fernando e i suoi lasciano la discoteca senza creare disagi, ma il gruppo del ragazzo con la camicia macchiata non ha intenzione di andarsene e inizia ad opporre tenace resistenza ai buttafuori.

Sono una decina di ragazzi provenienti da Zárate (località nel nord della provincia bonaerense nota per aver dato i natali al calciatore Ricardo Enrique Bochini, máximo ídolo dell’Independiente): Ayrton Viollaz (20 anni), Enzo Comelli (19 anni), Tomás Colazo (al tempo minorenne), Juan Pedro Guarino, i fratelli Ciro e Luciano Pertossi (rispettivamente 19 e 18 anni) e i loro cugini Blas Cinalli (18 anni) e Lucas Pertossi (20 anni), a sua volta cugino di Alejo Milanesi, Máximo Thomsen (20 anni) e suo cugino Matías Benicelli (20 anni). La compagnia, al di là dei rispettivi rapporti di parentela, si è formata nel club rugbistico Náutico Arsenal Zárate dove è emerso lo spessore sportivo di Máximo (non a caso poi approdato al Casi, una delle società più importanti della palla ovale nazionale), indicato da molti come possibile futuro integrante dei Pumas, la nazionale albiceleste. Nella loro cittadina d’origine quei giovani appartenenti all’élite economica locale sono conosciuti da tutti: la loro fama di rissaioli è ben nota, quando sono in gruppo (en patota) non perdono occasione per attaccare briga e picchiare chicchessia, le serate dei loro weekend sono una lunga sequela di pestaggi. 

La sicurezza de Le Brique fatica non poco a cacciarli, Máximo in particolare oppone una strenua resistenza: sono necessari due uomini per immobilizzarlo e portarlo letteralmente di peso fuori dal locale. Una volta in strada i rugbiers vedono Báez Sosa mentre mangia il gelato e aspetta Julieta. Thomsen dà il segnale per l’imboscata. Comelli e Ciro Pertossi colpiscono vigliaccamente alle spalle Fernando che cade a terra. I ragazzi di Zárate gli sono subito sopra e lo investono con una spietata quanto infame miriade di calci e pugni. Lucas Pertossi filma la scena con il proprio smartphone. Gli amici di Báez Sosa tentano di intervenire, i rugbisti li contengono e picchiano anche loro. Mentre a turno tutti i rugbiers partecipano al massacro di Fernando Báez Sosa, Matías Benicelli lo apostrofa urlando: «¡Negro de mierda!».

I buttafuori della discoteca osservano la scena senza intervenire, successivamente giustificheranno la propria pusillanime posizione nascondendosi dietro a motivazioni di tipo assicurativo e legale. Thomsen si avvicina a un Fernando ormai tramortito a terra, completamente indifeso, e inizia a colpirlo con calci e pugni alla testa: «Dai alzati: vigliacco!». Colazo è l’unico che cerca di frenare Máximo, ma è tutto inutile, gli altri amici lo incitano: «Dai, uccidilo!». La giovane promessa della palla ovale celeste y blanca si china, prende fra le mani la testa di Báez Sosa e prima di sbatterla al suolo esclama: «Tranquilli questo me lo porto a casa come trofeo!». Quindi Thomsen si rialza e infligge al capo di un Fernando ormai esanime tre calci potentissimi. 

I rugbiers si allontanano, il corpo di Báez Sosa viene immediatamente soccorso, qualcuno chiama l’ambulanza, una passante tenta la rianimazione cardiopolmonare sul corpo del giovane bonaerense. Le condizioni di Fernando sono disperate: è in arresto cardiaco, ha un grave trauma cranico, lesioni multiple al viso, un’emorragia alla testa, danni cerebrali e una lacerazione al fegato. Il pestaggio è durata pochissimo – cinquanta secondi esatti – ma tanto è bastato alla bruta masnada per uccidere una persona.

Quando Julieta esce da Le Brique trova il proprio fidanzatino morto. Da quel giorno la giovane è entrata in depressione e ha abbandonato gli studi universitari. 

Nel frattempo i rugbisti si recano nella casa che hanno affittato per il periodo vacanziero e si cambiano i vestiti. Si fanno un selfie tutti insieme, sorridenti, come se niente fosse successo. Alcuni di loro si recano in un vicino McDonald’s. Grazie ai filmati di videosorveglianza e ai racconti dei testimoni, la polizia li rintraccia la mattina seguente. Prima di chiudersi in un mutismo assoluto, tutt’ora osservato – i media argentini parleranno di pacto de silencio per evitare di aggravare le posizioni di ognuno di loro –, i ragazzi di Zárate rivelano alle autorità che tale Pablo Ventura era con loro: scatta l’ordine di arresto anche per quest’ultimo. In realtà Ventura la notte precedente era nella casa dei propri genitori a quasi sei ore di distanza da Villa Gesell: i rugbiers hanno fatto il suo nome, visto che era una delle loro vittime preferite, solo per procurargli qualche problema, riuscendoci giacché Ventura sconterà un paio di notti in carcere prima di essere prosciolto.

Il DNA di Fernando Báez Sosa viene ritrovato sulle scarpe e sulle camicie di Máximo Thomsen e Matías Benicelli, ma anche sui vestiti di Ciro Pertossi, mentre quello di Blas Cinalli è presente sugli indumenti della vittima. I video girati da Lucas Pertossi inguaiano praticamente tutti, solo Colazo e Guarino non partecipano al pestaggio, mentre Milanesi non era presente: i tre vengono scarcerati mentre gli altri otto rimangono in prigione.

La feroce brutalità dell’omicidio attira l’interesse dei media di tutto il Paese, nemmeno l’epidemia di Covid-19 e la conquista del Mondiale di calcio faranno calare l’attenzione sulla faccenda, anzi: Leandro Paredes, poche settimane dopo il trionfo in Qatar, prende posizione e sui propri social chiede giustizia per Fernando. 

Televisioni e stampa argentini indagano sugli otto rugbisti, emergono fatti inquietanti. Lucas nel 2019 ha minacciato di morte, rotto una gamba e rubato una moto a un ultratrentenne; nello stesso anno Máximo ha mandato all’ospedale un coetaneo. A Zárate però nessuno fiata, parla o denuncia: la madre di Thomsen – l’architetto Rosalía Zárate – è la segretaria delle opere pubbliche della città, e perciò vicina al potere politico locale. I Pertossi, invece, fanno paura: Marcos e Mauro, genitori dei tre, in gioventù hanno avuto comportamenti simili a quelli dei loro cinque figli, Ciro e Luciano infatti hanno un fratello minore, Ramiro, successivamente arrestato per aver minacciato con una pistola un coetaneo, così come Lucas ne ha uno maggiore, Matías, in galera per una rapina realizzata nel 2018.

Le famiglie dei rugbiers non chiedono scusa ai genitori di Fernando, minimizzano l’accaduto parlando di un litigio finito male e colpevolizzano – arrivando anche ad aggredire – i giornalisti e i reporter che seguono la vicenda imponendola all’attenzione nazionale. 

Nascono account Twitter e Instagram in appoggio agli imputati, si sospetta siano stati gestiti direttamente da alcuni di loro, capaci di introdurre smartphone in carcere. 

Il 6 febbraio 2023 si è concluso il processo, cominciato il 2 gennaio, contro gli otto. Matías Benicelli, Enzo Comelli, Ciro e Luciano Pertossi e Máximo Thomsen vengono giudicati colpevoli di omicidio aggravato premeditato e vengono condannati all’ergastolo, che in Argentina si traduce in trentacinque anni effettivi di carcere. Blas Cinalli, Lucas Pertossi e Ayrton Viollaz in quanto partecipanti al delitto ricevono quindici anni di galera. Colazo e Guarino, già prosciolti nella fase d’indagine e chiamati a testimoniare, ricevono una denunzia per falsa testimonianza.

(In alto: Thomsen, Ciro, Comelli, Benicelli; in basso: Luciano, Lucas, Cinalli, Viollaz)

Il terribile omicidio di Báez Sosa è solo l’ultimo, e più feroce, atto criminale che vede coinvolti i rugbisti argentini, impegnati, negli ultimi anni, più a occupare le pagine di cronaca nera che quelle sportive. 

Il primo evento delittuoso che vede invischiato il mondo della palla ovale albiceleste risale al gennaio 2006, quando nella località balneare brasiliana di Ferrugem (non distante da Florianópolis) il ventitreenne bonaerense Ariel Malvino è ucciso a botte da dei rugbiers correntini: Carlos Andrés Gallino Yanzi, Horacio Antonio Pozo ed Eduardo Braun Billinghurst. Incredibilmente il processo contro i tre non è ancora iniziato.

Gennaio 2012: cinque elementi del Tucumán Rugby mandano all’ospedale il quindicenne Ezequiel Biagioli.

Marzo 2016: i rugbisti Patricio Velázquez, Hernán Gabriel González, Adrián Augusto Donato e Tomás Fernández sono arrestati a Rio de Janeiro per aver assalito e causato una frattura mandibolare a un poliziotto carioca.

Agosto 2016: John Little, calciatore ventisettenne in forza al Defensores de Olivos, finisce in terapia intensiva con una frattura craniale dopo essere stato aggredito davanti a una discoteca da alcuni giocatori dell’Olivos Rugby Club.

Settembre 2016: il rugbier Julián Cirigliano del San Cirano si fa riprendere dagli amici mentre per strada sorprende un senzatetto alle spalle scaraventandolo a terra.

Febbraio 2017: alcuni atleti del Logaritmo aggrediscono, picchiano e mandano all’ospedale un giovane.

Novembre 2017: Manuel Covella, Lucio Cucchiara, Luciano Fasoletti, Emiliano Sonsini e Andrés Speziali, cinque rugbisti del Gimnasia y Esgrima de Rosario, scatenano una maxi rissa all’interno di una discoteca, picchiando e causando lesioni, anche gravi, agli altri avventori.

Marzo 2018: Martín Oharriz, giocatore del Jockey de Rosario, squadra militante nella massima divisione della palla ovale argentina, viene filmato mentre picchia la sua fidanzata.

Dicembre 2019: il diciottenne Mauro Ovadilla a causa di un pugno di un rugbier del CVJ subisce il distaccamento della cornea.

Gennaio 2020: alcuni elementi dell’Universitario de La Plata hanno incontri sessuali con alcune coetanee e, ad insaputa di queste, realizzano dei filmati poi divulgati in rete.  

Marzo 2020: la diciasettenne Melanie Grabner denuncia di essere stata drogata e poi stuprata da cinque giocatori del Círculo Ex Cadetes del Liceo Militar General San Martín.

Dicembre 2020: Mateo Soler (figlio dell’ex Puma Facundo Soler) e Tadeo Torasso, atleti del Tala de Córdoba, pestano, causando numerose fratture facciali, il diciottenne Lautaro Insúa, poiché questi non permetteva loro di partecipare alla sua festa privata. Pochi giorni dopo a Roldán (provincia di Santa Fe) un giovane è assalito da alcuni membri del Atlético del Rosario. Infine il 27 a Claromecó (provincia di Buenos Aires) il ventitreenne Felipe Di Francesco perde l’occhio sinistro dopo essere stato attaccato dai gemelli Lucio e Ignacio Cozzi, ex atleti de La Plata Rugby, che lo aggrediscono mentre ripulisce la spiaggia dopo un party al quale aveva partecipato.

Ottobre 2021: a City Bell (provincia bonaerense) sette rugbiers dell’Albatros picchiano un ventunenne sino a fargli perdere conoscenza.

Febbraio 2023: durante il carnevale di Corrientes un trentunenne subisce un pestaggio da parte di una decina di rugbisti.

È financo scontato sottolineare che la sequela di atti criminali non possa essere imputata allo sport praticato da chi li ha commessi – sarebbe una follia anche solo pensarlo, e d’altronde in nazioni con una maggiore tradizione rugbistica non esistono minimamente casistiche simili – questa permette però di capire come l’Argentina della palla ovale intenda sé stessa all’interno della società; come ha scritto in un tweet la giornalista sportiva Angela Lerena nel gennaio 2020: «Il problema non è il rugby, è la composizione sociale di chi lo gioca. Uomini di classe superiore e medio-alta che si percepiscono superiori […]. Lo so: sono cresciuta con loro».

La palla ovale in Argentina è un residuo – come una certa toponomastica (si pensi alle cittadine Henderson o Hurlingham) o alcuni quartieri bonaerensi (Barrio Inglés de Caballito o Belgrano R) – del rapporto con il Regno Unito: quest’ultimo al principio del XIX tentò con scarso successo l’occupazione per poi ripiegare su una colonizzazione informale foriera di ricchi scambi commerciali. L’Argentina nella propria storia ha subito innumerevoli ondate migratorie provenienti da un’infinità di nazioni, perciò anche da Inghilterra, Galles e Scozia; i calciatori campioni del mondo el Tata Brown e Alexis Mac Allister sono figli di questi flussi migratori, così come il cantante Richard Coleman, l’attrice Jazmín Stuart, il ministro Luis Rafael Mac Kay, il generale Roberto Marcelo Levingston e la scrittrice María Elena Walsh (mentre Rodolfo Walsh e sua figlia María Victoria, entrambi giornalisti e vittime del Proceso de Reorganización Nacional, avevano origini irlandesi). 

Dal Regno Unito giunsero anche rappresentanti di imprese britanniche attive in Argentina che si relazionarono e strinsero rapporti di amicizia con la benestante popolazione locale, introducendola allo sport della palla ovale. E così sin da subito il rugby nel Paese sudamericano è stato ad appannaggio degli strati più abbienti, i quali al giorno d’oggi, anche a causa delle recenti crisi economiche, si sentono avvolti da un’aura di elitarismo e percepiscono come enorme e profonda la distanza che li separa dal resto della popolazione.

Il tweet scritto dal giornalista sportivo Pablo Carrozza il 28 novembre 2020 offre una chiave di lettura che spiega la violenza che parte del mondo della palla ovale albiceleste si sente in diritto di poter esercitare sul resto della cittadinanza: «I Pumas rappresentano il rugby argentino, e il rugby argentino oggi si identifica con un settore della società che rifiuta il povero e il villero».

Carrozza non ha scritto a caso quelle parole in quella data. Quel giorno infatti la nazionale celeste y blanca ha affrontato a Newcastle in Australia la Nuova Zelanda in un match valido per il Tri Nations (sorta di Sei Nazioni australe). Prima della sfida gli All Blacks hanno reso sentito tributo a Diego Armando Maradona, scomparso appena tre giorni prima, regalando agli avversari una propria casacca intitolata al Diegote, evento più unico che raro visto che da sempre gli oceanici, per evidenziare l’importanza della selezione rispetto ai singoli, non indossano maglie personalizzate. Ma mentre il capitano neozelandese Sam Cane aspettava al centro del campo il parigrado rivale Pablo Matera, questi, come tutti i suoi compagni, non accennava ad avvicinarsi per raccogliere l’omaggio.

Il buon Cane, sorpreso e meravigliato dall’assenza di reazione, si è quindi visto costretto ad appoggiare a terra la casacca, raccolta solo in un secondo momento da un ayudante de campo della panchina sudamericana. Apriti cielo! Maradona in Argentina è sacro e intoccabile, a maggior ragione a poche ore dalla sua morte. La stupita rabbia popolare si è da subito scagliata contro i Pumas accusati di vilipendio della principale figura sportiva nazionale ed è in questo quadro che va collocato il tweet di Carrozza in cui il giornalista sottolinea come Diego, originario di Fiorito e perciò villero, fosse ritenuto estraneo dai nazionali rugbisti argentini, nonostante nel 2015 el Diez avesse seguito in Inghilterra la Selección rugbier impegnata nella Coppa del Mondo.

Il 30 novembre Matera ha provato a mettere una pezza con un videomessaggio di scuse, servito però a poco. Qualcuno infatti si era già preso la briga di compulsare gli account Twitter di alcune figuras della rappresentativa nazionale per scoprire che queste anni prima avevano scritto un profluvio di cinguettii razzisti, antisemiti, classisti, machisti e zeppi di bodyshaming. Matera si scagliava più volte contro i boliviani residenti in Argentina accusandoli di ruberie e ladrocini, prometteva che avrebbe rapato la propria domestica giacché insoddisfatto dell’operato di quest’ultima, scriveva bestialità come «Bella mattinata per uscire in macchina e mettere sotto i negri» e chiosava così la sua esperienza al mondiale giovanile di rugby disputato in Sudafrica: «Finalmente lascio questo paese pieno di negri!». Dello stesso tenore le sparate di Guido Petti. Santiago Socino invece, oltre a invocare autobus riservati per la popolazione bianca, connotava i suoi tweet con un profondo e marcato antisemitismo e insultava pesantemente Hebe de Bonafini, una delle più note Madres de Plaza de Mayo

Alla luce di tutto ciò le parole di Angela Lerena, che rimproverava al mondo rugbier albiceleste razzismo e classismo, sono maggiormente intendibili, non va inoltre dimenticato che mentre Fernando Báez Sosa veniva ucciso Matías Benicelli lo insultava con epiteti razzisti.

L’Argentina è la nazione sudamericana con la più alta percentuale di popolazione bianca, sebbene in passato una buona fetta della sua cittadinanza sia stata di colore: all’inizio del XIX secolo un terzo degli abitanti di Buenos Aires era di origine africana e risiedeva soprattutto nel quartiere San Telmo. L’abolizione della schiavitù, l’alta mortalità delle fasce più umili della società, la guerra d’indipendenza, quella della Triplice alleanza e la Conquista del Desierto – conflitti in cui fu largamente adoperata la popolazione afrodescendiente – ridussero drasticamente la cittadinanza di colore. Il resto lo fece la storiografia nazionale che sin dall’inizio dipinse l’Argentina come un Paese figlio esclusivamente degli immigrati europei, negando l’importante ruolo dei nativi americani e degli schiavi africani. E così si è radicata l’idea che l’Argentina fosse uno stato del Vecchio Continente – leggasi: bianco – sul suolo americano, con tutto ciò che ne consegue. 

È talmente moneta corrente che il rugbier albiceleste sia razzista, classista, sessista e incline alla violenza che nel 2018 l’attore Ezequiel Campa ha deciso di ironizzare sulla cosa inventando e interpretando Dicky del Solar: un personaggio comico corrispondente alle caratteristiche di cui sopra che gli ha permesso di furoreggiare su YouTube. Ovviamente non tutti i rugbisti argentini sono così.

Per esempio Tomás Hodgers nei giorni immediatamente successivi alla morte di Fernando si è scagliato, con una lettera aperta pubblicata sui propri social, contro il mondo della palla ovale: «Sì, siamo stati noi. Nessuno ha osato dire che siamo stati noi. […] Siamo indignati perché crediamo ci stigmatizzino […] e cerchiamo veementemente di mostrare alla società quanto sia sbagliato quel pregiudizio. Sosteniamo che i nostri valori siano superlativi e che non esiste sport più dignitoso e onorevole del nostro. Ci diciamo che è uno sport da bestie praticato da gentiluomini e gonfiamo il petto. Ci riempiamo la bocca parlando di Nelson Mandela e del rispetto per l’arbitro, del terzo tempo e del cameratismo. […] Ci crediamo moralmente e fisicamente superiori agli altri. È a causa di questo narcisismo collettivo, a causa della convinzione fittizia che abbiamo di noi stessi, che nessuno, nemmeno una persona nell’ambiente del rugby, ha osato dire che siamo stati noi. Nessuno si è assunto le sue responsabilità o si è scusato. Ma sì, siamo stati noi, quelli che abitavano il minuscolo mondo del rugby, a formare dieci persone squilibrate che hanno ucciso ferocemente e con odio un ragazzino indifeso. […] Ammettiamolo, siamo stati noi. Dicendo che siamo stati noi, potremo guardare negli occhi tutte quelle vittime e chiedere scusa senza vergogna. Potremo dire loro che siamo responsabili, ma che faremo tutto il possibile per cambiare tutto ciò che viene fatto male. Da rugbista chiedo a tutti noi che facciamo parte di questo ecosistema di essere i primi a denunciare e ripudiare queste cose, e non i principali occultatori di un amico o conoscente del club. […] Diciamolo, siamo stati noi, e proviamo a cambiare».

Qualcuno però ha fatto autocritica e ha denunciato lo stato di cose in cui versa la palla ovale albiceleste. Non una voce qualsiasi, ma bensì la più forte e rispettata dell’intero universo rugbier argentino: Agustín Pichot, capitano dei Pumas terzi (massimo conseguimento storico della rappresentativa sudamericana) nella Coppa del Mondo del 2007, secondo celeste y blanco di sempre ad entrare nella World Rugby Hall of Fame e già vice-presidente della World Rugby, la federazione che governa a livello mondiale la palla ovale.

Pichot ha puntato il dito sull’usuale e acconsentita violenza ritualistica, come le iniziazioni, che satura il cameratismo che governa i vari spogliatoi e che si espande anche nella vita privata degli atleti, che finiscono così per accettare e assecondare ogni forma di prevaricazione: «Il grande problema del nostro sport e non aver saputo differenziare il bene dal male: abbiamo accettato la violenza. Credo che il rugby abbia naturalizzato molte brutte cose: che ti corchino di botte, che ti mordano e ti impediscano di sederti… Un uomo di 130 chili, con una mandibola differente che azzanna come un dogo, mi ha morso una natica, non ho potuto sedermi per quattro giorni. Non avete idea di quanto mi faceva male. “Ahahahahahah”: tutti i miei compagni ridevano, non era per niente divertente. Mi hanno rapato, adoravo i miei capelli… Quando sono diventato capitano ho chiuso con queste storie, ho avuto molte discussioni a riguardo. Le cose stanno cambiando, come il machismo nella società. Negli ultimi anni al rugby è capitato di tutto: hanno ammazzato un ragazzo, non va bene! Dopo la morte di Fernando ho chiesto a mia figlia: “Valentina: che ne pensi dei giocatori di rugby?”, mi ha detto: “Sono dei teppisti, casinisti, aggressivi”. Non mi ha sorpreso la sua risposta […]. Per questo ho mandato un messaggio al papà di Fernando chiedendogli scusa. Era quello che dovevo fare perché io sono stato uno di quelli che ha proseguito con quell’accettazione». 

A suo tempo Maradona disse che se fosse stato un rugbista sarebbe stato Pichot, confermando il passaggio della canzone La vida tombola di Manu Chao che recita: «Si yo fuera Maradona frente a cualquier porquería nunca me equivocaría».

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