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LO STATO DI MINORITÀ CHE IMPRIGIONA L’ALTRA AMERICA

by | Jun 20, 2021 | Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Perù, Venezuela | 0 comments

Mentre l’America Latina continua ad annaspare sotto i colpi del Covid-19 e di una vaccinazione, che in molti Paesi continua ad andare a rilento, al largo delle sue coste sembrano tornare ad affacciarsi ombre, che, partendo dal Venezuela, potrebbero estendersi a tutta la regione. Nelle ultime settimane due navi da guerra iraniane si sarebbero mosse alla volta del Venezuela con l’intento, a quanto pare, di consegnare un significativo carico di armi al governo di Nicolás Maduro. 

Da sponda iraniana nulla trapela, ciononostante, occorre registrare la sempre più forte presenza navale di Teheran in questa parte dell’Atlantico, da un lato, mentre, dall’altro, la sua rinnovata capacità di sussidio militare nei confronti di un Paese come il Venezuela, il quale sta vivendo una realtà schizofrenica, tra la crisi umanitaria, che stritola ogni giorno di più la sua popolazione, e la costante ricerca, da parte delle sue autorità, di un’affermazione di tipo militare nella regione, nel tentativo, non peregrino, di non essere rovesciate e sostituite tramite un colpo di Stato, ad oggi altamente improbabile, tanto per cause esterne che interne. 

La sinergia tra il regime iraniano e quello di Caracas sembra essere una sorta di quadratura del cerchio per entrambi i Paesi. Mentre, infatti, Maduro guadagna tempo, alleati, mezzi di sussistenza, pur in uno scenario dove il caudillismo degli inizi sembra avere lasciato il posto ad una specie di satrapia orientale in salsa sudamericana, per il governo iraniano il guadagno è in termini meramente geopolitici, venendo ad essere, la sua amicizia col Venezuela, un’autentica spina nel fianco per Washington, malgrado gli alleati statunitensi presenti nella regione (su tutti: Colombia a nord e Paraguay a sud). 

Dal 2015 ad oggi il regime di Teheran ha intensificato la sua presenza nell’Atlantico meridionale, proprio con l’intento di fare pressione sugli Stati Uniti, come dichiarato a suo tempo dall’ammiraglio Afshin Rezayee Haddad, quando ci tenne a ricordare che l’avvicinamento della flotta iraniana agli Stati Uniti era finalizzato a mandare un messaggio specifico, una sorta di memorandum per Washington, teso a mostrare l’anacronismo sotteso ad una, più o meno velata, dottrina Monroe riferita ad un contesto ormai multipolare. 

La cooperazione sulla difesa, del resto, era stata la pietra angolare sin dall’inizio della strategica alleanza, che, dal 2005, lega Iran e Venezuela. Un parternariato, il quale, come osservano Ilan Berman e Joseph Humire in un loro recente articolo, ha permesso a Teheran di aggirare le sanzioni internazionali, continuando ad ampliare il proprio arsenale militare, ma, più ancora, forse, di trovare canali di contatto con Paesi quali Cuba e la Bolivia nel tentativo di creare una alternativa riconoscibile all’egemonia statunitense nella regione. 

Da parte sua, il Venezuela, anche alla luce delle recenti tensioni al confine con la Colombia, non ha che da guadagnare da questa alleanza di ferro con l’Iran, sia in un’ottica di difesa dei propri confini che in quella degli attuali equilibri di potere all’interno. Questo movimento di Teheran in sinergia con Caracas va posto in continuità con la fine dell’embargo, avvenuto nell’ottobre dell’anno passato, sulle armi, che era stato imposto al governo iraniano dall’ONU. Elemento che si salda all’attuale volontà espressa da Maduro di creare una commissione tecnico-scientifica militare al fine di modernizzare le forze armate venezuelane. 

Gli sforzi per mantenersi al potere passano inevitabilmente da un rafforzamento dell’esercito, per la qual cosa è più che lecito pensare ad un decisivo contributo, che, in tal senso, sarà offerto dall’alleato iraniano. Sempre sul fronte degli alleati di Caracas, va registrato l’incontro, avvenuto giovedì scorso (17 giugno), tra il rampante Ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza, e il suo omonimo turco Deha Erpek al fine di rafforzare l’alleanza tra i due Paesi, secondo un orientamento già in essere dalla fine del 2018 con la visita in Venezuela del presidente turco Erdogan, il quale all’epoca garantì appoggio politico ed economico a Maduro. 

Pertanto, unendo gli elementi richiamati, ciò che sembra emergere è una geopolitica in accelerato movimento per quanto concerne il lato atlantico del continente latinoamericano, a cui, certamente, l’elezione di Joe Biden ha fornito un ulteriore input. Da parte loro, gli Stati Uniti stanno tenendo d’occhio la situazione in maniera discreta, nonostante, come pubblicato su Politico e ripreso da Infobae, due funzionari della Difesa ed una fonte interna al Congresso abbiano dichiarato che il Governo Biden starebbe facendo pressione sul Venezuela e su Cuba, affinché rifiutino l’attracco delle due navi da guerra iraniane nei loro porti, dando, in tal modo, per scontato che si tratti di un carico di armi da consegnare a Maduro. 

Una situazione potenzialmente incendiaria, che può anche legarsi alla generale instabilità attualmente presente sullo scacchiere latinoamericano tra governi traballanti (o comunque duramente contestati) e situazioni, come quella peruviana, dove il governo, tra inconsistenti accuse di brogli, ancora deve insediarsi, ma rispetto a cui non è dato sapere esattamente le possibili scelte in materia di politica estera. Guardando agli interessi del Venezuela, non è nemmeno da escludere che un tale contesto possa essere stato creato, se non ad arte, quantomeno mantenendo sullo sfondo la concreta possibilità di trarre guadagno da una simile dinamica, magari ottenendo una attenuazione delle sanzioni economiche imposte al Paese caraibico dalla precedente amministrazione di Donald Trump. 

Parimenti, da sponda statunitense, non sembrano venire toni concilianti, avendo dichiarato, un alto funzionario del governo, che “la consegna di tali armi sarebbe vista come un atto di provocazione e intesa come una minaccia rivolta contro i nostri alleati nell’emisfero occidentale”, non escludendo la possibilità di prendere “le misure appropriate, in coordinazione con i nostri alleati, al fine di dissuadere il transito o la consegna delle suddette armi” (Infobae). 

La destinazione finale di queste navi, come pure il loro carico, restano, tuttavia, avvolti dal mistero, essendosi rifiutato, il portavoce del Ministero degli Affari Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, di comunicare aggiornamenti a riguardo, limitandosi a dire che il suo Paese ha tutto il diritto di navigare in acque internazionali e che nessuno può negare il passaggio alle sue navi, nella misura in cui queste non invadano il territorio di un altro Stato. Una situazione, per certi versi, paradossale ed anche un poco “infantile” a giudicare dalle scontate motivazioni addotte dai singoli soggetti in campo. 

Al tempo stesso, è uno stato di cose, che potrebbe progressivamente precipitare, soprattutto alla luce del prossimo appuntamento elettorale in Brasile, previsto per la seconda parte del prossimo anno. A differenza di altri momenti storici, l’attuale contesto politico latinoamericano è una partita a scacchi di cui è assai difficile decifrare i possibili svolgimenti. Da opposte posizioni, Paesi come Venezuela e Brasile risultano essere, a causa dei loro governi, sempre più isolati sotto il profilo internazionale, mentre un alleato storico di Washington come la Colombia è attraversato dalla sua primavera, impastata con la speranza mista a disperazione dei suoi tanti giovani e giovanissimi, che ogni giorno scendono in strada, sfidando il virus e i vecchi demoni del paramilitarismo e delle esecuzioni extragiudiziali

Pessime notizie vengono da El Salvador e dal Nicaragua, dove si registra un costante attacco alle libertà costituzionali da parte dei rispettivi presidenti; dal Guatemala, dal Messico e dallo Honduras, pesantemente attraversati dalla piaga del narcotraffico, che ormai sembra essersi istituzionalizzato, per tacere della costantemente tragica situazione, che si vive nella piccola Haiti, che sembra scontare una qualche inspiegabile e perenne condanna, sebbene sia stato il secondo Paese del continente americano a dichiararsi indipendente, dopo gli Stati Uniti. 

Anche scendendo più a sud, le cose non migliorano, tra una pandemia, che, in molti Paesi, non accenna a diminuire, e una crisi economica palpabile, ma che, soprattutto in Argentina, sembra stare raggiungendo livelli di gravità tali da far sorgere il dubbio che ogni possibile riforma possa non essere sufficiente a invertire la rotta. Per altro verso, in una situazione così fortemente traballante, non sorprende che il governo di Maduro tenti di giocare tutte le carte che ha a disposizione. 

Una dinamica similare a quella presentatasi in quest’ultima settimana si era già verificata nel maggio del 2020 sempre per il tramite di imbarcazioni battenti bandiera iraniana, le quali, anche all’epoca, usarono l’argomento del trasporto di combustibile all’alleato venezuelano per coprire la fornitura, da parte del governo di Teheran, di materiale militare sensibile, avente come obiettivo quel rafforzamento delle forze armate venezuelane, che, come abbiamo già detto, è il principale progetto perseguito da Maduro per mantenersi al potere. 

Come informa il portale Defesanet, il trasporto di combustibile servì come esca da dare in pasto all’amministrazione dell’allora Presidente Trump. Dal tempo in cui al potere si trovava Hugo Chavez, le forze di sicurezza e l’alta cupola del governo di Caracas sanno bene che la via più sicura per ritardare la formazione di un vasto fronte internazionale, avente di mira la loro rimozione dal potere, passa per un drastico rafforzamento del proprio sistema di difesa antiaereo, considerando di minore entità eventuali altri tipi di minacce via terra, come anche recentemente mostrato con riferimento alle tensioni registrate alla frontiera con la Colombia. Difese, le quali, tuttavia, devono anche essere viste secondo un’ottica di attacco per mezzo di missili a lungo raggio, che potrebbero raggiungere obiettivi in diversi Paesi, non necessariamente solo quelli confinanti. 

Da qualsiasi prospettiva la si guardi, l’America Latina nel suo complesso non smette di suscitare nell’osservatore, ancor più se questi è europeo, l’impressione di un deficit di autonomia politica, che diventa tanto più preoccupante all’aumentare degli attori in campo negli spazi geopolitici di competenza dei singoli Stati. Sia che si prenda il Venezuela, sia che si guardi, a sud, al Paraguay, per citare due Paesi schierati su poli opposti, ciò che si palesa ogni volta è l’assenza di qualcosa di anche solo vagamente simile ad una Confederazione di Stati latinoamericana, capace di presentarsi sulla scena internazionale come un’entità coesa e riconoscibile. 

L’embrione per la formazione di un tale processo aggregante potrebbe, o forse, meglio, poteva essere rappresentato dalla cornice offerta dal Mercosur, il quale, purtroppo, sembra vivere un irreversibile processo di crisi. Quanto emerge in modo nitido, pure testimoniato dalla recente vicenda delle navi iraniane, è che fino a quando gli Stati formanti il continente latinoamericano continueranno a ricadere sotto l’ombrello di alleanze aliene, in cui, da ultimo, ricoprono il ruolo di comprimari, difficilmente la regione nel suo complesso potrà fare sostanziali passi avanti. 

In certo qual modo, si potrebbe individuare in Simón Bolivar e nel suo concetto di patria grande la stella polare, a cui i popoli latinoamericani dovrebbero tornare a guardare, prendendola come traccia da seguire, riadattata ai tempi, nella costruzione del proprio futuro. Malgrado la figura del Libertador costituisca l’elemento decisivo della costruzione dell’identità politica legata al governo venezuelano, sin dai tempi di Hugo Chavez, ciò non toglie che quell’idea di federazione, secondo un modello di repubblica peculiare ai popoli latinoamericani, sembra rappresentare anche al presente la chiave per una inserzione dell’America Latina nel suo insieme in quella che un grande storico tedesco del XIX secolo, Johann Gustav Droysen, definiva col termine große Politik, la grande politica

Simón Bolivar, prima e meglio di altri, capì che l’America Latina avrebbe potuto raggiungere la propria autonomia, primariamente sul piano politico, solo nella misura in cui avesse seguito il proprio peculiare – e perciò unico – cammino. Un cammino, oggi più che mai, in salita, soprattutto a causa dei sempre reiterati tentativi delle destre latinoamericane di accodarsi a modelli di sviluppo di matrice statunitense o confusamente europei (più spesso la prima opzione), mentre, per quanto riguarda le sinistre, si assiste frequentemente ad una difesa acritica della propria sovranità nazionale, pensata sempre in opposizione a possibili modelli alternativi, quali quelli basati su processi di integrazione politica aventi di mira il rafforzamento di tutta l’area tramite la creazione di un mercato interno e concreti meccanismi di cooperazione tra i vari Paesi della regione.

Il continente latinoamericano appare così come un’enorme scatola cinese, che rimanda sempre a qualcosa di altro, senza che si riesca a capire dove stia il punto finale della serie. Senza che si riesca, in termini concreti, a intravedere una via d’uscita a quello stato di minorità, che attanaglia, pur con differente intensità, ogni Paese compreso tra Centro e Sudamerica, dalla Bassa California alla Patagonia, e che il disastro della pandemia sembra avere ulteriormente aggravato, rendendo sempre più stridenti le contraddizioni socio-economiche all’interno dei singoli Stati. 

Sebbene sia vero che occorre guardare con speranza al futuro, a maggior ragione qui in Brasile, dove alle prossime elezioni vi sarà un candidato presidente, Lula, il quale ha in mente un’idea progressiva, pluralista e inclusiva di Paese, parimenti, ciò potrebbe non bastare. I processi che venti anni fa, quando Lula fu eletto per la prima volta, cominciavano ad albeggiare, adesso hanno raggiunto un grado di maturazione tale da richiedere un rinnovato impegno da parte delle nazioni latinoamericane come un soggetto politico unitario, capace di muoversi in modo coordinato e non procedere a ranghi sparsi, strizzando l’occhio di volta in volta all’alleato di Washington, a quello di Teheran o cercando di mantenersi in equilibrio tra poli geopolitici opposti. 

Più che di un Biden brasiliano, come è stato scritto poche settimane fa su un importante quotidiano italiano, a queste latitudini, battute da crisi economica e pandemia, ci sarebbe bisogno di un Bolivar latinoamericano. La volontà di avviare un progetto, che possa culminare nella creazione di una Confederazione di Stati latinoamericani, dovrebbe appartenere ad ogni partito e formazione politica presenti nell’America Iberica, a prescindere che si posizionino a destra, a sinistra o al centro. Un progetto di lungo periodo, senz’altro, ma di vitale importanza al fine di ribaltare la narrazione geopolitica, soprattutto con riferimento all’ingombrante vicino statunitense. In un’epoca di imperi, procedere a ranghi sparsi appare una scelta perdente in partenza, capace solo di perpetuare quello stato di minorità, dal quale i Paesi dell’altra America non sembrano, ancora oggi, capaci di uscire.

Forse nessuno più di Nicomedes Santa Cruz ha saputo rendere meglio il pluralismo culturale intrinseco alla storia latinoamericana, immortalandolo in opere letterarie e artistiche, che sono, al contempo, manifesti politici quantomai attuali, come è il caso di America Latina. Partire da una poesia per riscoprire un progetto politico, sarebbe certamente una scelta di autonomia in linea col sentire profondo di queste terre: Alguien pregunta de dónde soy (Yo no respondo lo siguiente): Nací cerca de Cuzco, admiro a Puebla, me inspira el ron de las Antillas, canto con voz argentina, creo en Santa Rosa de Lima y en los Orishas de Bahía. Yo no coloreé mi Continente, ni pinté verde a Brasil, amarillo Perú, roja Bolivia. Yo no tracé líneas territoriales, separando al hermano del hermano.

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