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Crisi in Perù: alle radici della protesta

by | Jan 30, 2023 | Perù | 0 comments

Da oltre un mese, strade e piazze del Perù si sono convertite nello scenario di una feroce protesta nei confronti dell’intera classe politica peruviana. Con oltre 50 morti registrati negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, stando ai dati della Defensoría del Pueblo, quella attualmente in corso rappresenta la più grave crisi politica degli ultimi decenni, una sorta di inevitabile e prevedibile regolamento di conti su larga scala per un Paese contrassegnato da una lunga instabilità politica, aggravata dall’impatto socio-economico del Coronavirus.

Colpo di stato ed arresto di Pedro Castillo

A fare da detonatore della crisi attuale, è stata la destituzione dell’ormai ex presidente peruviano Pedro Castillo. Presentatosi davanti al Congreso peruviano lo scorso 7 dicembre, chiamato ad affrontare, per la terza volta, la votazione di una procedimento di impeachment per “incapacità morale permanente” nei propri confronti, Castillo colse di sorpresa il Paese intero annunciando lo scioglimento del Congreso e la convocazione di un’Assemblea costituente. Una mossa azzardata e del tutto inaspettata, che ha riportato immediatamente alla memoria dell’opinione pubblica l’autogolpe di Alberto Fujimori nel 1992, con cui l’ex dittatore peruviano instaurò il proprio decennio di potere.

Nel giro di poche ore, il Parlamento peruviano votava a favore della destituzione di Castillo, che veniva, intanto, tratto in stato di fermo mentre cercava di raggiungere l’ambasciata messicana a Lima per chiedere asilo politico. Condannato a 18 mesi di carcere sotto forma di misura cautelare nell’ambito del processo aperto nei suoi confronti, gli vengono contestati i reati di ribellione, abuso di autorità e turbativa dell’ordine pubblico per il tentativo di colpo di stato, Pedro Castillo si è improvvisamente convertito nel protagonista dell’ondata di proteste che ha fatto immediatamente seguito alla sua destituzione.

In particolare le regioni andine della fascia centro-meridionale del Perù, zoccolo duro dell’elettorato che contribuì all’elezione di Castillo nel 2021, sono infatti scese in piazza chiedendo a gran voce la liberazione dell’ex presidente, accusando apertamente il Congreso peruviano di aver “voluto far fuori” il proprio candidato, un uomo del popolo. Di professione maestro elementare, cresciuto e profondamente radicato nella regione di Cajamarca, tra le Ande peruviane, nella storia del Perù, nessun presidente ha incarnato a tal punto la figura di rappresentante istituzionale di quell’elettorato andino da sempre relegato in secondo piano, di lingua quechua ed aymara, come fatto da Castillo. C’e stata una profonda identificazione su basi etniche e culturali alla base della sua affermazione alle urne, una vittoria che ha ricordato molto da vicino il trionfo di Evo Morales in Bolivia in quanto a composizione e motivazioni dell’elettorato.

Proteste e richieste della piazza 

La richiesta di scarcerazione di Pedro Castillo, protagonista di una gestione assolutamente fallimentare durante i 16 mesi in cui è durato il proprio mandato, contrassegnato da continui rimpasti di Governo ed una costante instabilità politica, ha però lasciato, progressivamente, il campo ad altre istanze da parte della piazza in rivolta. Ben presto, infatti, la protesta ha assunto i connotati di una lotta di classe, uno scontro tra quelle due anime del Perù che da sempre vivono separate, profondamente divise per ragioni, in primis, economiche e culturali.

Da un lato Lima, cuore economico e politico, la capitale affacciata sull’Oceano Pacifico che da le spalle al resto del Paese, una divisione geografica che rappresenta una perfetta metafora della realtà peruviana. Dall’altro lato c’e infatti la Sierra, la fascia andina, seguita dalla regione amazzonica, entrambe, paradossalmente, decisive per l’economia peruviana grazie alla ricchezza di risorse naturali, minerarie in primis, che albergano. Un “patrimonio” economico a cui fanno però da contraltare alti indici di povertà, scarse infrastrutture ed un sostanziale abbandono da parte delle istituzioni centrali, come evidenziato dalla drammatica gestione della pandemia del Covid-19, che ha visto le regioni dell’interno quasi abbandonate al proprio destino, con interi villaggi senza praticamente ricevere assistenza sanitaria.

Un concentrato di rabbia e frustrazione che si è tramutato in proteste di piazza con cadenza giornaliera, decine di blocchi stradali che hanno paralizzato soprattutto il Sud del Paese, ed una domanda focalizzata in tre punti: rinuncia di Dina Boluarte, nominata a capo dell’Esecutivo dopo la destituzione di Castillo, convocazione di nuove elezioni e di un’Assemblea Costituente, incaricata di riformulare una nuova Costituzione che mandi in soffitta quella promulgata da Alberto Fujimori nel 1993 ed ancora vigente.

Piuttosto che cercare la via del dialogo, la risposta delle istituzioni si è però caratterizzata per un uso sproporzionato della forza da parte delle forze dell’ordine chiamate a reprimere la protesta, con oltre 40 morti tra i manifestanti, molti dei quali, come confermato dalle autopsie realizzate, deceduti per colpi d’arma da fuoco sparati ad altezza d’uomo. Una violenza spropositata denunciata anche dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), che ha puntato il dito anche contro una generale accusa di terrorismo nei confronti dei manifestanti da parte delle autorità centrali, che richiama alla memoria le ferite, mai rimarginate nella società peruviana, della guerra civile contro Sendero Luminoso, il gruppo terrorista d’ispirazione marxista-leninista attivo nell’ultimo ventennio del secolo scorso, conclusasi con un saldo finale di circa 70.000 morti, secondo le stime della Commissione di Verità e Riconciliazione (CVR). 

Conflitti sociali e modello economico

Le profonde fratture sociali ed economiche alla base delle proteste che stanno incendiando il Perù, rivelano in primis le storture del modello economico imposto dal fujimorismo. Un’economia di stampo prettamente neoliberale, volta a limitare al massimo gli interventi statali, favorendo di contro gli investimenti privati, in particolare quelli delle grandi multinazionali del settore minerario, che rappresenta oltre il 60% delle esportazioni peruviane. Il Paese andino è infatti ai primi posti a livello mondiale per quanto riguarda la produzione di minerali come rame, stagno, zinco ed oro. Una ricchezza di risorse naturali che ha garantito un costante segno positivo del PIL nazionale nell’ultimo ventennio, ad eccezione del 2020, ma pagata a caro prezzo in termini di disuguaglianza e conflittualità sociale.

Con circa il 15% del territorio nazionale dato in concessione alla multinazionali del settore minerario, in Perù si registrano oltre 200 conflitti legati agli impatti socio-ambientali dei progetti minerari. Nomi come Conga, Las Bambas o Tía Maria, alcuni dei principali conflitti legati allo sfruttamento delle risorse minerarie in Perù, si sono convertiti in casi nazionali nel corso degli ultimi anni, caratterizzati da una feroce opposizione delle popolazioni locali allo sviluppo di tali progetti. Non solo per l’inevitabile impatto ambientale, nel caso del Conga, ad esempio, il progetto della compagnia canadese Newmont prevede il prosciugamento di tre laghi di montagna per far posto ad una gigantesca miniera d’oro, ma anche per i conseguenti risvolti in chiave economica e sociale, come la contaminazione ed il prosciugamento di fonti di sostentamento per le popolazioni locali, in primis le falde acquifere. Una problematica aggravata, inoltre, dalla spinosa questione del reparto a livello locale delle “regalias” ovvero le tasse pagate dalle multinazionali per le concessioni ottenute, ritenute spesso insufficienti dalle popolazioni delle località oggetto delle concessioni minerarie.

Alle profonde storture della società peruviana, fa da corollario un’instabilità politica permanente, convertitasi in marchio di fabbrica della politica nell’ultimo ventennio. La totale assenza di un progetto politico forte ed unitario, capace di tradursi in una maggioranza parlamentaria coesa e capace di garantire le riforme necessarie, ha tradotto il Congreso peruviano in un’accozzaglia rissosa ed ingestibile, dove il fujimorismo gioca ancora un ruolo decisivo in termini di numeri ed azione politica. A dimostrazione di ciò, le costanti e regolari mozioni di censura presentate nei confronti degli ultimi presidenti succedutisi al Governo, da PPK a Vizcarra, passando per Castillo ed Olanda Humala, tutti ascrivibili a una corrente politica di sinistra e centro-sinistra, di fatto impossibilitati a governare per mancanza di una maggioranza parlamentare. Anche la corruzione continua a giocare un ruolo fondamentale in quanto a promotore dell’instabilità politica del Paese: ad eccezione di Francisco Sagasti, il cui Governo ad-interim tra il novembre 2020 ed il luglio 2021 ha fatto registrare incredibili livelli di consenso, i restanti titolari dell’Esecutivo sono stati tutti coinvolti in scandali di corruzione che ne hanno contaminato immagine ed azione di governo. In primis il coinvolgimento nello scandalo Lava Jato, la gigantesca trama di corruzione gestita dall’impresa brasiliana Odebrecht, che ha visto le porte del carcere aprirsi per Ollanta Humala, l’emissione di un ordine di cattura internazionale a carico di Alejandro Toledo, ex presidente rifugiatosi negli USA, ed il suicidio di Alan García mentre agenti di Polizia erano diretti al suo domicilio per trarlo in arresto.

Una sorta di pentola a pressione pronta ad esplodere, questa era la chiara ed inevitabile immagine del Perù prima che scoppiassero le proteste di piazza che stanno incendiando il Paese da oltre un mese.

Dina Boluarte e prospettive future 

Il perdurare delle proteste, aggravate dal bilancio delle violenze registrate negli scontri, sta mettendo con le spalle al muro l’Esecutivo di Dina Boluarte, che ha fatto registrare una disapprovazione al 76% nei confronti del proprio operato, secondo un recente sondaggio promosso dal quotidiano peruviano La Republica. Determinata a non fare un passo indietro come richiesto dalla piazza, la Boularte sta però cercando una via d’uscita alla crisi a livello istituzionale, facendo pressione sul Congreso affinché si decida a votare a favore di una chiamata alle urne entro il 2023. Senza un’apertura nei confronti delle richieste dei manifestanti in rivolta, almeno alcune, la situazione rischia di degenerare, col rischio concreto di un acuirsi della repressione da parte delle forze dell’ordine, stante il perdurare dello stato di emergenza proclamato nelle zone epicentro della protesta, praticamente tutte le regioni meridionali e la capitale Lima. 

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